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Testamento olografo: alcune indicazioni pratiche

Testamento olografo: alcune indicazioni pratiche

Testamento olografo: alcune indicazioni pratiche

Il testamento olografo è il testamento scritto interamente “di mano” dal testatore e sempre “di mano” datato e sottoscritto. Il meno formale dei testamenti previsti dal nostro codice civile rimane pur sempre un documento con una forma ben precisa. La mancanza della forma incide sulla validità del testamento.

L’olografia, cioè la scritturazione “di mano”, ha una funzione ben precisa. È l’elemento che collega il testamento a colui che lo ha scritto.

Nella normale scrittura privata le regole che collegano il documento all’autore sono diverse rispetto alla materia testamentaria. Per prima cosa non si parla di documento interamente scritto di pugno, ma solo di documento sottoscritto (art. 2702). La scrittura farà piena prova se colui che l’ha sottoscritta ne riconosce la sottoscrizione. Evidentemente nel testamento olografo questo non è possibile: quando il testamento olografo acquisterà efficacia il testatore non potrà lui stesso riconoscerne la sottoscrizione perché il testamento acquista efficacia con la morte proprio del testatore.

La legge, quindi, richiede qualcosa di più: che il testamento sia interamente redatto di mano dal testatore. Non si potranno utilizzare mezzi meccanici, caratteri a stampa, computer e stampanti, pena la nullità del testamento. La scrittura a mano garantisce che tutto il testamento provenga dal testatore e non da altri e, indirettamente, garantisce una maggior ponderatezza del contenuto del testamento. Scrivere a mano un testo è infatti una operazione più complessa rispetto a firmare in calce un documento preparato da altri.

La giurisprudenza tende a interpretare con molta rigidità il requisito dell’olografia: ogni elemento della scheda testamentaria che non sia apposto personalmente dal testatore è in grado di pregiudicare la validità del testamento.

Ad esempio, nella prassi è capitato che il testatore non abbia apposto personalmente la data al testamento. La data risultava invece apposta da terzi. In alcune pronunce questo vizio è stato considerato più grave (nullità) rispetto alla mancanza della data (che comporta invece l’annullabilità del testamento). In questo senso testualmente la sentenza Cass. civ. Sez. II Sent., 05-12-2018, n. 31457Nel testamento olografo l'omessa o incompleta indicazione della data ne comporta l'annullabilità; l'apposizione di questa ad opera di terzi, invece, se effettuata durante il confezionamento del documento, lo rende nullo perché, in tal caso, viene meno l'autografia stessa dell'atto, senza che rilevi l'importanza dell'alterazione”. La massima poi prosegue per chiarire che se l’intervento dei terzi è successivo e indipendente dalla volontà del testatore il testamento potrebbe mantenere la propria validità (“Peraltro, l'intervento del terzo, se avvenuto in epoca successiva alla redazione, non impedisce al negozio "mortis causa" di conservare il suo valore tutte le volte in cui sia comunque possibile accertare la originaria e genuina volontà del "de cuius"). Cosa ci suggerisce la sentenza: l’ordinamento non tollera che il testatore si faccia aiutare nel confezionare il proprio testamento, mentre si mostra disponibile a salvare la volontà di chi ha fatto testamento quando l’intervento dei terzi è stato fatto all’insaputa del testatore già defunto.

Talvolta nella prassi si presenta un problema piuttosto particolare: il testamento scritto “di mano” dal testatore ma in carattere stampatello. La validità del testamento è abbastanza dibattuta. Secondo alcuni, infatti, la scrittura in stampatello non sarebbe idonea a ricollegare lo scritto al testatore in quanto meccanica riproduzione dei caratteri “da stampa” e priva dei requisiti di personalità della scrittura. Altri interpreti e la giurisprudenza prevalente ritengono che il requisito di forma che la legge impone al testamento olografo sia la scrittura “di mano”, senza ulteriori specificazioni. Dal momento che anche la scrittura in stampatello è scrittura “di mano” non vi sarebbero ragioni per considerare non valido un testamento che soddisfa le richieste della legge. Peraltro non è secondario il fatto che la legge non conosce distinzione tra la scrittura in corsivo e la scrittura in stampatello, che trova una differenziazione soltanto in alcune pronunce giurisprudenziali. In questo senso si è pronunciata la Cass. civ. Sez. II Sent., 05-12-2018, n. 31457 dicendo che “L'abitualità e la normalità del carattere grafico adoperato non rientrano fra i requisiti formali del testamento olografo ai sensi dell'art. 602 c.c., benché assumano un pregnante valore probatorio nell'ottica dell'attribuzione della scheda al testatore. Pertanto, l'uso dello stampatello non può escludere di per sé l'autenticità della scrittura, pur se rappresenta, ove non sia giustificato dalle condizioni psico-fisiche o da abitudine del dichiarante o da altre contingenze, il cui esame è di esclusiva competenza del giudice di merito, un elemento significativo del quale tenere conto ai fini della valutazione di tale autenticità”.

In sintesi: la Suprema Corte afferma la validità del testamento olografo scritto in stampatello, ma afferma anche che, nel caso di contestazione della sua autenticità (ovvero di fronte all’affermazione che il testamento non è stato scritto dal testatore), la scrittura in stampatello rende più difficoltosa la verificazione.

 

CONCLUSIONI

Nella redazione del testamento olografo è bene attenersi a tutti gli elementi formali previsti dalla legge e avere cura che tutti gli elementi (contenuto, data e sottoscrizione) siano curati con grafia corsiva e nella contestualità.

Talvolta la scelta del testamento olografo può rappresentare la scelta più indicata. Si presta maggiormente, ad esempio, a regolamentare situazioni destinate a mutare a breve. Oppure, per via della scritturazione “di mano” si presta ad avere un contenuto meno tecnico e più “personale” rispetto al testamento pubblico. Queste valutazioni non significano che l’intervento del notaio non sia un intervento prezioso. Il notaio potrà prestarsi a valutare forma e contenuto di quanto si vuole scrivere e a custodirlo fiduciariamente, prevenendo così, da un lato l’inserimento di elementi che invalidano il testamento o favoriscono l’insorgere delle liti, e dall’altro la preservazione dell’integrità materiale del documento a fronte di smarrimenti e distruzioni più o meno volontarie.

Qualora si venga in possesso di un testamento olografo, seppure privo della data o redatto in scritture differenti, ovvero ancora scritto in stampatello, consegnarlo al notaio al fine di procedere ad una prima valutazione della completezza formale con il notaio medesimo. Salva l’evidenza di vizi formali di particolari gravità (ad esempio un testamento interamente dattiloscritto o non sottoscritto) la pubblicazione rimane comunque una operazione necessaria e preventiva anche alle contestazioni di carattere formali che potranno aver luogo solo successivamente alla stessa.

Qual è il tuo nome? Nomi e doppi nomi, come comportarsi

Qual è il tuo nome? Nomi e doppi nomi, come comportarsi

Qual è il tuo nome? Nomi e doppi nomi, come comportarsi.

La domanda sembrerebbe semplice: “come ti chiami?”, ma la risposta non sempre lo è.

Partiamo dall’origine: dal notaio si firma con l’apposizione del nome e con il cognome. La firma è parte dell’atto, che deve essere tutto chiaro e leggibile, compresa la firma, che dovrà essere leggibile con il nome e con il cognome.

“Firmi signor Carlo Mario” “ma notaio io Mario non ce l’ho sul codice fiscale” “ma notaio nessuno mi chiama Mario” oppure “ma notaio io ho la virgola”.

Sul nome c’è stata e forse c’è tutt’ora molta confusione.

Nel linguaggio comune si parla di primo e secondo nome, talvolta di nome di battesimo, altre volte di nome dato in Comune e nome dato in Chiesa e via di seguito.

 

CHI È NATO PRIMA DEL 2000

Il concetto di nome era nell’art. 6 del codice civile il quale prevedeva unicamente che “nel nome si comprendono il prenome e il cognome”.

La disciplina era contenuta nell’ Ordinamento dello stato civile di cui al R.D. 9-7-1939 n. 1238. Il nome non viene definito, viene dato per presupposto. Al contrario si dice (art. 72) “E' vietato di imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi, e per i figli di cui non sono conosciuti i genitori anche cognomi, ridicoli o vergognosi o contrari all'ordine pubblico, al buon costume o al sentimento nazionale o religioso, o che sono indicazioni di località o in generale denominazioni geografiche (…).”

Era comune dare più di un nome, ma il relativo utilizzo (e relativa certificazione nelle carte di identità e negli estratti) era degradato ad un elemento di prassi. La “virgola” tra un nome e un altro, di regola, faceva degradare il secondo elemento secondario quasi “non ufficiale”. L’elemento risultava dagli estratti e spesso anche nei documenti di identità, con tanto di virgola.

 

CHI È NATO TRA IL 2000 E IL 2012

Si tenta di fare maggiore chiarezza con il D.P.R. 3-11-2000 n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile).

Intanto all’art. 35 circoscrive il concetto di nome “Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere composto da uno o da più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre. In quest'ultimo caso, tutti gli elementi del prenome dovranno essere riportati negli estratti e nei certificati rilasciati dall'ufficiale dello stato civile e dall'ufficiale di anagrafe”.

Il tentativo neppure tanto velato è quello di eliminare il concetto di “secondo nome”. Il nome è uno solo e può essere formato da più elementi (onomastici). Quindi “Carlo Mario” dell’esempio è un solo nome composto da più elementi. Coerentemente, gli estratti e i certificati riporteranno i due elementi. Se poi nella vita comune viene utilizzato solo il primo elemento, ufficialmente non rileva, come non rilevano i soprannomi.

 

CHI È NATO DOPO IL 2012

Con la L. 10 dicembre 2012, n. 219 viene un po’ modificato il concetto di nome. Si dice infatti che “Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere costituito da un solo nome o da più nomi, anche separati, non superiori a tre. Nel caso siano imposti due o più nomi separati da virgola, negli estratti e nei certificati rilasciati dall'ufficiale dello stato civile e dall'ufficiale di anagrafe deve essere riportato solo il primo dei nomi.”

Sparisce il riferimento all’elemento onomastico e si torna al nome. Si torna anche alla “virgola”, anche se questa volta non legata ad una prassi, ma normata.

Quindi il nome non è più uno solo composto da più elementi, ma il nome può essere:

  • Singolo (es. Cesare)
  • Composto da più elementi non separati da virgola (es. Marco Antonio)
  • Composto da più elementi separati dalla virgola (Maria, Francesca)

La differenza tra i casi 2 e 3 consiste nell’“ufficialità” del secondo elemento. Senza la virgola comparirà in atti estratti e certificati e pertanto “andrà usato” nelle occasioni ufficiali, come ad esempio una sottoscrizione di un atto notarile. Con la virgola non comparirà e non andrà utilizzato essendo un elemento “ufficiale” in quanto registrato, ma con minori implicazioni sulla generalizzazione della persona.

 

COSA FARE NEL CASO DI CONFUSIONE

La legge sa che la situazione prima del 2000 era confusa e infatti prevede, già nel testo originario che (art. 36) “Chi ha avuto attribuito alla nascita, prima della data di entrata in vigore del presente regolamento, un nome composto da più elementi, anche se separati tra loro, può dichiarare per iscritto all'ufficiale dello stato civile del luogo di nascita l'esatta indicazione con cui, in conformità alla volontà del dichiarante o, all'uso fàttone, devono essere riportati gli elementi del proprio nome negli estratti per riassunto e nei certificati rilasciati dagli uffici dello stato civile e di anagrafe.”

Quindi di fronte alle situazioni di confusione la legge offre la possibilità di fare chiarezza in maniera piuttosto semplice.

Bisogna tenere presente che l’anagrafe tributaria, da cui si ricava il codice fiscale, dovrebbe essere allineata all’anagrafe municipale. Nel caso in cui ci sia confusione la regola è che prima si dovrebbe sistemare l’anagrafe municipale e poi si dovrebbe adeguare di conseguenza l’anagrafe tributaria facendosi attribuire un corretto codice fiscale.

Va tenuto presente che le modifiche che si fanno all’anagrafe municipale derivano dalla “volontà del dichiarante o, all'uso fattone”. Quindi, se ho più nomi e la situazione non è chiara ho due possibilità: scegliere la situazione che più mi piace (un solo nome o entrambi o tutti) o quella che corrisponde all’uso (come mi chiamano gli altri). Nell’uso però può rientrare anche l’uso fiscale. Quindi è possibile adeguare l’anagrafe municipale a quella fiscale, magari per il timore di fare confusione con acquisti fatti e posizioni fiscali aperte (imprese, quote, società etc.).

 

 

 

Abitabilità: oggetto misterioso

Abitabilità: oggetto misterioso

Abitabilità: oggetto misterioso

Nella pratica quotidiana, i dubbi e le domande che circondano l’agibilità o abitabilità sono molte: si può vendere senza agibilità? L’immobile senza agibilità è abusivo? L’agibilità deve essere richiesta anche per le modifiche? Molte poi le fake news o presunte tali: “l’atto senza agibilità è nullo”, “un immobile senza agibilità non si può vendere”.

Queste brevi note divulgative vorrebbero fare un po’ di chiarezza.

Intanto rispondiamo ad una domanda: è un documento necessario per vendere un immobile?

Per rispondere a questa domanda, prima dobbiamo rispondere ad un’altra domanda: cos’è l’agibilità?

L’agibilità non va confusa con il provvedimento edilizio che consente e regola la costruzione di un immobile. Un immobile può dirsi “abusivo” quando è costruito senza il provvedimento edilizio richiesto per eseguire un’opera edilizia o quando l’opera realizzata è radicalmente difforme dal Provvedimento ottenuto.

Quando l’immobile però è terminato, il Provvedimento Edilizio non basta perché l’immobile venga utilizzato come abitazione o come ufficio o come negozio o altro ancora. Occorre l’attestazione di altri elementi di carattere igienico/sanitari che vengono inglobati in un diverso provvedimento che attesta l’idoneità dell’immobile ad essere utilizzato per quello che è.

 

QUADRO NORMATIVO

In principio si trattava di un provvedimento (del Podestà) con funzione solo sanitaria:  l’art. 221, primo comma, del regio decreto 27 luglio 1934, n° 1265 (testo unico delle leggi sanitarie) prevedeva un controllo di regolarità della costruzione, prosciugamento dei muri e assenza di altre condizioni di insalubrità.

Successivamente, pur mantenendo carattere prevalentemente sanitario, con l’art. 4 del d.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, l’abitabilità diventa una certificazione più ampia. Vengono aggiunti altri presupposti: conformità al progetto e collaudo (regolarità urbanistica), prosciugatura muri e altre condizioni di igiene (salubrità) e l’avvenuto accatastamento (regolarità fiscale). La norma prevedeva la richiesta con la dichiarazione del direttore lavori e una procedura di silenzio assenso che trovava la sua definitiva conclusione nei 180 giorni successivi.

Con la sistemazione della materia urbanistica nel TU d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, l’abitabilità, ormai diventata agibilità (art. 24), si arricchisce ulteriormente. Viene aggiunto a quanto sopra anche il risparmio energetico e la regolarità degli impianti. La norma prevedeva la conclusione dell’iter di silenzio assenso in 30 – 60 giorni.

Con il d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 la norma viene nuovamente cambiata ed è ora il direttore dei lavori che attesta l’agibilità con la Segnalazione Certificata di agibilità (norma in vigore dall’11 dicembre 2016). L’edificio può essere utilizzato dal momento della presentazione della SC di agibilità (con l’occasione ulteriormente arricchita).

In ogni caso l’autorità può, se ne ravvisa i presupposti, dichiarare l’inagibilità ai sensi dell’art. 222 del RD 1265.

 

RICAPITOLANDO…

  • L’agibilità non va confusa con il Provvedimento Edilizio.
  • Può esserci il Provvedimento Edilizio e la costruzione conforme pur senza esserci agibilità.
  • Non può esserci agibilità senza il Provvedimento Edilizio e la costruzione conforme (essendone un presupposto sin dal 1934) con la sola esclusione delle costruzioni realizzate prima della legge urbanistica.
  • La mancanza del Provvedimento Urbanistico incide sulla validità dell’atto, mentre la mancanza dell’agibilità non riguarda la validità dell’atto. Talvolta è addirittura fisiologico. Un tempo erano previste delle sanzioni. Oggi le sanzioni sono per la mancata presentazione dell’agibilità, dove necessaria.

 

COME COMPORTARSI

Come deve comportarsi l’acquirente?

L’assenza di sanzioni legate alla validità dell’atto non devono far sottovalutare l’importanza dell’agibilità.

Di norma l’acquirente di un immobile dovrà assicurarsi della presenza della certificazione di abitabilità (se anteriore al 1994 o al 2001) o di agibilità (se posteriore al 2001) e chiederne conto al venditore.

Qualora l’immobile non abbia la certificazione di agibilità/abitabilità bisognerà approfondire il perché manchi e e cosa serva per acquisirla. Opportuno e consigliato un accesso agli atti presso il comune ed un sopralluogo ad opera di un tecnico di propria fiducia.

 

PER LE MODIFICHE?

L’acquirente dovrà anche assicurarsi che, se l’immobile ha subito interventi, anche solo interni, sia stato compiuto l’iter per l’agibilità qualora necessario. E qui la legge (dopo il 2003 – entrata in vigore del TU 380/2001) richiede che la scia di agibilità debba essere presentata non solo per le nuove costruzioni, ma anche per quegli interventi che possano influire sulle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati. Per gli interventi precedenti al 2003 invece non era previsto alcun obbligo.

 

CHI DEVE GARANTIRE?

E’ evidente che il venditore, di norma, deve garantire l’agibilità di quanto venduto e quindi:

  • Consegnare il certificato o la SCIA, se in suo possesso;
  • Garantire che, in difetto, le condizioni di agibilità vi siano comunque;
  • Procurarsi il Certificato o la SCIA se l’iter amministrativo degli interventi precedenti non si era, per qualsiasi motivo, compiuto.

 

QUALI CONSEGUENZE?

L’assenza di tutto ciò non comporta la nullità dell’atto, ma conseguenze che possono essere le più varie, da una tutela risarcitoria alla risoluzione del contratto. Un esame delle ragioni per le quali manca l’agibilità consentirà una corretta regolamentazione nell’atto di vendita, evitando lunghe liti in tribunale.

 

SI PUÒ ACQUISTARE UN IMMOBILE SENZA AGIBILITÀ?

Se l’immobile è regolare da un punto di vista urbanistico si può acquistare senza agibilità. E’ quello che di norma succede per immobili molto vecchi o fatiscenti che l’acquirente acquista per ristrutturare integralmente e per i quali è pienamente consapevole dell’impegno che va a prendere.

 

COME SI RISPONDE ALLA DOMANDA “MA ANCH’IO HO COMPRATO COSI”?

Che è un elemento irrilevante. Peraltro il medesimo venditore ha interesse ad una piena regolamentazione per evitare di essere chiamato in garanzia a fronte di accordi sullo stato di fatto ben chiari.

Organo di controllo nelle Srl: cosa cambia?

Organo di controllo nelle Srl: cosa cambia?

Organo di controllo nelle Srl: cosa cambia?

Con il D.Lgs. 12-1-2019 n. 14 intitolato “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155” è stato profondamente modificato l’art. 2477 del codice civile che riguarda la nomina dell’Organo di Controllo nelle Srl (Art. 379 in vigore ex art. 389 dal 16 marzo 2018)

Il secondo e il terzo comma sono sostituiti dai seguenti:

«La nomina dell'organo di controllo o del revisore è obbligatoria se la società:

a) è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;

b) controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;

c) ha superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 2 milioni di euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 2 milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 10 unità.

L'obbligo di nomina dell'organo di controllo o del revisore di cui alla lettera c) del terzo comma cessa quando, per tre esercizi consecutivi, non è superato alcuno dei predetti limiti.»

Il testo in vigore prima della sostituzione era il seguente: «La nomina dell'organo di controllo o del revisore è obbligatoria se la società: a) è tenuta alla redazione del bilancio consolidato; b) controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti; c) per due esercizi consecutivi ha superato due dei limiti indicati dal primo comma dell'articolo 2435-bis.».  I quali limiti erano:  1) totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 4.400.000 euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 8.800.000 euro; 3) dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 50 unità.

Occorre quindi distinguere:

Società costituire dopo il 16 marzo 2019: devono avere statuti già adeguati alle normative ed adeguarsi alle normative.

Società costituite precedentemente:  il comma 3 della norma citata prevede che “devono provvedere a nominare gli organi di controllo o il revisore e, se necessario, ad uniformare l'atto costitutivo e lo statuto alle disposizioni di cui al predetto comma entro nove mesi dalla predetta data (quindi 16 dicembre 2019 NDR). Fino alla scadenza del termine, le previgenti disposizioni dell'atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia anche se non sono conformi alle inderogabili disposizioni di cui al comma 1.

E’ sempre necessario adeguare lo statuto? La norma prevede l’adeguamento “se necessario”. Probabile che la maggior parte degli statuti sia già adeguato, in quanto contenente un generico richiamo ai limiti di legge. Da porre particolare attenzione nel caso in cui lo statuto non preveda alcuna articolazione in ordine all’Organo di Controllo perché alcune scelte potrebbero essere precluse (Collegio sindacale in luogo dell’Organo monocratico etc).

Come è possibile modificare lo statuto se ricorrono i presupposti per la nomina obbligatoria dell’Organo di Controllo?

a) si può nominare il sindaco unico o il collegio sindacale (controllo della gestione) e di un revisore (controllo contabile);

b) si può nominare solamente il sindaco unico o il collegio sindacale e non il revisore; in tal caso, lo statuto deve attribuire all’organo di Controllo anche la revisione contabile (in mancanza si deve necessariamente nominare il revisore ex art. 2477, co. 5, e 2409-bis, co. 2). In questo caso l’organo sarà composto solo da revisori (art. 2409-bis, co. 2);

c) si può nominare il solo revisore e non dell’organo sindacale. In tal caso svolgerà solo la revisione contabile e non il controllo gestionale.

Terreni edificabili. Affrancamento di valore entro il 30 giugno 2019

Terreni edificabili. Affrancamento di valore entro il 30 giugno 2019

La disposizione originaria era contenuta nella legge 28 dicembre 2001 n. 448” - Art. 7 “1.  Agli effetti della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze (…), per i terreni edificabili e con destinazione agricola posseduti alla data del (…), può essere assunto, in luogo del costo o valore di acquisto, il valore a tale data determinato sulla base di una perizia giurata di stima (…), a condizione che il predetto valore sia assoggettato ad una imposta sostitutiva delle imposte sui redditi (…)”.

Negli anni passati la disposizione è stata prorogata più volte e da ultimo la legge 145/2018 commi 1053 e 1054 ha spostato il termine al prossimo 1° luglio (cadendo il 30 giugno di domenica).

Anche l’aliquota dell’imposta sostitutiva è stata via via modificata da un iniziale 4%, raddoppiata all’8% nel 2015 e attualmente fissata 10%.

Versando l’imposta sostitutiva si evita così di pagare le imposte ordinarie sulle plusvalenze maturate entro il valore della perizia, mentre le imposte si pagheranno solo per l’eventuale plusvalenza tra il valore di perizia e il prezzo della vendita.

La norma interessa chi al 1° gennaio 2019 possedeva i terreni al di fuori del regime d’impresa (persone fisiche, società semplici, associazioni professionali ed enti non commerciali).

La norma ormai riproposta, con qualche interruzione, da diversi anni presentava alcuni spunti critici solo parzialmente risolti.

Gran parte dei dubbi hanno riguardato il prezzo di vendita dell’immobile periziato ed in particolare quando si vende a un prezzo più basso di quello periziato (magari qualche anno prima).

La legge 448 prevedeva che una volta periziato, il valore di perizia fosse il valore (minimo) di riferimento per le imposte della vendita (registro, ipotecarie e catastali). Ne fu dedotto che in caso di vendita a un prezzo inferiore al valore periziato la rivalutazione non veniva più riconosciuta dall’Agenzia delle Entrate, con pagamento delle plusvalenze nella misura ordinaria. La giurisprudenza si è pronunciata in senso contrario e la prassi dell’Amministrazione Finanziaria ha successivamente temperato l’orientamento fornendo due alternative:

  1. pagare le imposte della vendita sul valore periziato anche se superiore al prezzo di vendita ovvero
  2. rinnovare la perizia rideterminando il valore coincidente con il prezzo di vendita.

Chiaramente questa ultima alternativa valeva solo a condizione che i termini per la rivalutazione non fossero scaduti.

Questa seconda alternativa pareva la più conveniente, ma solo a parità di aliquota. Non altrettanto quando si effettuano aggiornamenti del valore al ribasso ove nella prima rivalutazione l’aliquota era del 4% mentre nelle successive saliva all’8% per terminare con l’attuale 10%. In effetti, posto che l’imposta da versare corrisponde alla differenza tra l’imposta già versata e quella prevista sul valore rivisto, l’innalzamento dell’aliquota potrebbe determinare una maggior convenienza della prima soluzione (tassazione sul maggior valore di perizia) eventualmente trovando un accordo venditore/acquirente per la sopportazione del carico fiscale.

Una seconda criticità, tuttora irrisolta, derivava dalla prassi dell’Amministrazione Finanziaria di considerare le vendite di fabbricati da demolire al pari di vendite di aree edificabili (risoluzione 395/E/2008, ma in senso contrario risoluzione 395/E/2008), posto che in questo caso, per prassi consolidata sembrerebbe che la norma in esame non sia comunque utilizzabile.  Si rammendo tuttavia la contrarietà di gran parte della Giurisprudenza a questa discutibile prassi dell’AE.

Spese condominiali: chi ne risponde tra acquirente e venditore?

Spese condominiali: chi ne risponde tra acquirente e venditore?

Spese condominiali: chi ne risponde tra acquirente e venditore?

L’art. 63 delle disposizioni di attuazione del codice civile prevede che “Chi subentra nei diritti di un condomino (l’acquirente ad esempio NDR) è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente” e al successivo comma “Chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto”.

La norma è inderogabile ai sensi dell’art. 72 delle disposizioni di attuazione.

Quindi, in base alla regola sopra detta, chi compra un appartamento in condominio per il quale pendono ancora spese condominiali non pagate, sarà tenuto a pagarle all’Amministratore di condominio. Questo obbligo riguarda le spese dell’anno in corso e dell’anno precedente. Chiaramente il venditore non sarà liberato, ma salvo patto contrario dovrà rifondere l’acquirente.

Sicuramente la norma è inderogabile. Cioè, sicuramente l’acquirente non può essere esonerato da questo tipo di responsabilità solidale e pertanto sarà un suo onere il verificare che le spese dell’appartamento che va a comprare siano state interamente pagate dal proprio venditore.

Alcuni regolamenti hanno inserito una regola secondo cui l’acquirente non risponderebbe solo del biennio, ma anche degli anni precedenti. E’ legittima questa clausola ? Sembrerebbe di no secondo quanto stabilito dalla Cassazione civ. Sez. II il 12-04-2019, con sentenza n. 10346 “la responsabilità solidale dell'acquirente di una porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al condominio, dal condomino venditore, è limitata al biennio precedente all'acquisto, trovando applicazione l'art. 63, secondo comma, disp. att. c.c. e non già l'art. 1104 c.c. atteso che, ai sensi dell'art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono ai condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina”.

In base alle norme richiamate, è buona norma che:

l’acquirente: prenda informazioni, anche per il tramite del venditore, presso l’amministratore di condominio facendosi rilasciare una dichiarazione di regolarità nel pagamento delle spese condominiali e sulla presenza/assenza di spese straordinarie deliberate (benchè relative a lavori non ancora eseguiti);

il venditore: provveda a trasmettere all’Amministratore di condominio la copia dell’atto di vendita, tenendo ben presente che fino a quando non adempirà a questo onere sarà obbligato con il suo acquirente nonostante non sia più condomino.